Ricevo e pubblico*
Il decorso clinico del COVID-19 può schematicamente essere suddiviso in 3 distinte fasi cliniche:
I° stadio) durante il quale il virus si replica all’interno delle cellule dell’ospite, caratterizzato clinicamente dalla presenza di malessere generale, febbre e tosse secca. I casi in cui l’infezione si blocca in questo stadio hanno un decorso assolutamente benigno.
II° stadio) caratterizzato dall’evoluzione verso un quadro di polmonite interstiziale spesso bilaterale associata, a sintomi respiratori che nella fase precoce sono stabili e senza ipossiemia, potendo successivamente sfociare verso una progressiva instabilità clinica. Le alterazioni polmonari sono prodotte sia dagli effetti diretti del virus che dalla risposta immunitaria dell’ospite.
III° stadio) In un numero limitato di pazienti, può verificarsi l’evoluzione verso un quadro più grave dominato dalla tempesta citochinica e dal conseguente stato iperinfiammatorio con formazione a livello polmonare di trombi nei piccoli vasi ed evoluzione verso lesioni più gravi e talvolta permanenti (fibrosi polmonare). In tale fase si osserva un’alterazione progressiva di alcuni parametri infiammatori e coagulativi.
Mentre le scelte terapeutiche nel I° stadio e nella fase iniziale del II° dovrebbero mirare al contenimento della crescita virale, nella fase avanzata del II° stadio e nel III°, l’obiettivo dovrebbe essere il contenimento dell’iperinfiammazione e della ipercoagulabilità del sangue e delle loro conseguenze utilizzando farmaci che bloccano la cascata citochinica e la formazione dei trombi come il cortisone e le eparine a dosi terapeutiche.
In questa seconda ondata epidemica, più del 90% dei soggetti colpiti rimane in isolamento presso il proprio domicilio.
Molti di questi sono asintomatici, molti altri presentano sintomi lievi non necessitando di supplementazione di ossigeno e conservando valori percentuali di O2 normali alla pulsossimetria.
Da quanto premesso si comprende facilmente come nei pazienti a domicilio con forme lievi, non disponendo di farmaci antivirali, non siano possibili terapie efficaci ed allo stato attuale, non esistono farmaci il cui impiego si sia dimostrato utile in questa fase ancorché in grado di modificare la durata o l’evoluzione della malattia.
I farmaci di cui si sente (troppo) parlare
CORTISONICI – Complessivamente le evidenze tratte dagli studi disponibili (che sono 5) e da una meta-analisi condotta dall’OMS riportano un effetto protettivo dei cortisonici in termini di mortalità, esclusivamente nei soggetti con patologia grave da COVID-19, in supplementazione di ossigeno, con e senza ventilazione meccanica, rilevandone l’inutilità all’infuori di questi casi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’agenzia Italiana e quella Europea per il Farmaco (AIFA ed EMA) nonché le linee guida della Società per le Malattie Infettive d’America (IDSA), raccomandano di non utilizzare desametasone per il trattamento del COVID-19 in pazienti che non richiedono ossigeno supplementare, confermandone l’efficacia solo nei pazienti più gravi. Ad analoghe conclusioni giunge anche l’importante studio RECOVERY, che nel gruppo di pazienti che non necessitavano di ossigeno supplementare non evidenziava alcun beneficio. Per inciso, i cortisonici ritardano l’eliminazione del virus. Anche se si tratta di studi che presentano tutti delle criticità, sono gli unici ad oggi disponibili e dai quali emergono con chiarezza solo i benefici che ne possono trarre i pazienti più gravi.
AZITROMICINA – Esistono prove che questi antibiotici portino effetti benefici nei pazienti con malattie polmonari infiammatorie esercitando effetti antinfiammatori e immunomodulatori ma non disponiamo di studi che ne dimostrino attendibilmente l’utilità nei pazienti COVID. Questi antibiotici, a causa di possibili effetti antinfiammatori e forse antivirali, sono stati studiati in pazienti con gravi infezioni respiratorie virali, ma con risultati incoerenti. La maggior parte dei dati disponibili per i pazienti COVID provengono da sei studi retrospettivi (per la maggior parte non pubblicati ufficialmente) sull’utilizzo in emergenza dell’idrossiclorochina, da sola o in associazione con azitromicina, i quali più che evidenziarne l’efficacia ne mostrano alcuni segnali di sicurezza principalmente cardiaci di cui è importante tenere conto, anche per le interazioni con altri farmaci spesso assunti dagli anziani quali per esempio gli antidepressivi e gli antiaritmici anch’essi dotati della stessa capacità di indurre aritmie cardiache (allungamento del QT). La mancanza di un solido razionale e l’assenza di prove di efficacia nel trattamento di pazienti COVID-19 non consente di raccomandare l’utilizzo dell’azitromicina, da sola o associata ad altri farmaci al di fuori delle indicazioni riportate nella scheda tecnica. L’AIFA sottolinea anche che il suo utilizzo nei pazienti COVID al di fuori delle indicazioni autorizzate è a carico del paziente.
EPARINA – L’unico elemento conoscitivo ad oggi disponibile è rappresentato da uno studio retrospettivo su 415 casi consecutivi di polmonite grave in corso di COVID-19 che ne considera l’uso nei pazienti che presentano livelli di attivazione della coagulazione molto superiori alla norma. Nei pazienti che non mostrano una simile attivazione della coagulazione, la somministrazione di eparina non apporta benefici, ma potrebbe anzi indurre un peggioramento particolarmente nei pazienti che mostrano livelli di D-dimero nei limiti. Sono in corso altri studi presso l’ospedale “Sacco” di Milano e presso Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena sempre su pazienti ospedalizzati. Come si può facilmente evincere le evidenze scientifiche sinora disponibile non supportano affatto l’impiego di questi farmaci nei pazienti lievi a domicilio per cui affermazioni del tipo “bisogna proteggere il polmone” oppure “occorre intervenire subito” ed altre del genere traggono fondamento esclusivamente nel proprio personale convincimento. Le evidenze scientifiche dicono tutt’altro.
In sintesi
Nei pazienti ospedalizzati e con forme moderate o gravi disponiamo di molti farmaci oltre ad eparina e cortisone. In tutti gli altri pazienti non esistono allo stato delle attuali conoscenze protocolli a cui sia possibile attribuire qualche efficacia ed essi seguono la loro naturale evoluzione.
Sorge allora spontanea la domanda: perché vengono prescritti a quasi tutti i pazienti?
Principalmente per lamancanza diraccomandazioni univoche cui fare riferimento.
Da quasi due mesi è riunito presso il ministero della sanità un comitato scientifico incaricato di ciò, che sino ad ora nulla ha partorito.
La mancanza di un protocollo operativo ufficiale ha la disastrosa conseguenza di disorientare il paziente contrapponendo due linee di condotta opposte, una certamente corretta, basata sull’attentissimo monitoraggio dell’ammalato, volta a cogliere i primi segnali di un’evoluzione verso lo stadio successivo somministrando solo sintomatici e non farmaci inutili, e quella di chi vede in ogni febbre una polmonite.
Delle due la seconda è sicuramente più semplice (e soddisfacente), si intercetta la frustrazione e le aspettative del paziente che reclama una terapia, dopo qualche giorno la febbre spesso scompare (vis sanatrix naturae) accreditando nel paziente la convinzione della efficacia dei farmaci di cui tutti i giornali parlano. Il risultato di tutto ciò è quello di minare il rapporto di fiducia medico-paziente e qualificando una corretta condotta come inerzia terapeutica. Purtroppo bisognerebbe comprendere che la febbre, sintomo presente nel 87% dei casi, si risolve spontaneamente quasi sempre entro una settimana e nessuna terapia è attualmente in grado di ridurne la durata. In una piccola percentuale di casi si protrae nella seconda settimana e questi pazienti sono di certo quelli da seguire con attenzione ancora maggiore. La cosa fondamentale è capire quando e se la malattia evolve verso la compromissione respiratoria, momento in cui è indicato impiegare farmaci mirati, ma anche il momento di valutare la necessità di ospedalizzazione.
Un paziente COVID con insufficienza respiratoria necessita almeno di un emogas e di una TAC e la sua gestione domiciliare comincia ad essere troppo rischiosa, diviene quindi fondamentale disporre di un protocollo capace di indicare con precisione il momento in cui richiedere il ricovero anche per non sovraccaricare inutilmente le strutture ospedaliere.
In ogni caso si ribadisce che nessuna evidenza scientifica supporta l’impiego della triade AZITROMICINA, CORTISONE EPARINA nei pazienti che non necessitano di ossigeno supplementare.
Desidero comunque sottolineare chiaramente che i pazienti che necessitano di ricovero e di cure specifiche rappresentano una percentuale minima, tutti gli altri superano la malattia esclusivamente grazie alle proprie difese e spesso anche nel caso di pazienti molto avanti negli anni, come un gruppo di ultraottuagenari con comorbidità affetti da COVID facenti parte di un focolaio scoppiato recentemente in una casa di riposo e da me seguiti.
Tutti hanno brillantemente superato la malattia senza alcuna terapia particolare.
A loro i migliori auguri.
*Dr. Sergio Sarracino
Specialista in Malattie del Cuore Medico di assistenza primaria