E’ il primo caso al mondo di trapianto eterotopico di fegato parziale. Un intervento che gli ha consentito di sconfiggere il tumore al colon che non gli avrebbe dato scampo e a cui si è sottoposto rischiando il tutto per tutto per amore di suo figlio, il piccolo Alessandro.
Emanuele D’Isanto, 45 anni appena compiuti, imprenditore nel campo della ristorazione, oggi è un uomo rinato.
E ha voluto raccontarci la sua storia, diventata già oggetto di studio nella comunità scientifica internazionale proprio per l’unicità del trattamento chirurgico sperimentato con successo sulla sua gravissima patologia.
Merito della sua invincibile forza d’animo ma soprattutto dell’équipe di Chirurgia Generale e Trapianti del policlinico Sant’Orsola di Bologna, diretta dal professor Matteo Cescon e coordinata sul “campo” dall’ideatore e autore materiale di questo vero e proprio prodigio, il professor Matteo Ravaioli.
Ad Emanuele (come potete leggere cliccando QUI) è stato infatti impiantato, al posto della milza, un pezzettino di fegato che, ricresciuto, ha poi sostituito in tutte le sue funzioni, il fegato “originale”, aggredito dalle metastasi e successivamente asportato del tutto, nel corso dell’ottavo ed ultimo intervento che il nostro concittadino ha dovuto subire nel giro di quattro anni in cui, ogni settimana, ha fatto la spola tra Pozzuoli ed il capoluogo emiliano anche solo per dover sopportare durissimi cicli di chemioterapia.
“Tutto è iniziato nel 2015 – ci dice Emanuele, che abbiamo incontrato stamattina nella sua abitazione del lungomare – Avevo continuamente febbre, debolezza e mal di stomaco. Per un anno mi è stata consigliata una cura antistress, ma poi ho capito che c’era qualcosa che non andava quando non riuscivo nemmeno a tenere in braccio mio figlio appena nato. E così, grazie ad indagini diagnostiche più approfondite, ho scoperto di avere un tumore al sigma: era grosso come un’arancia, qualcosa di impressionante, e aveva già dato metastasi al fegato. Mi sono rivolto al Sant’Orsola perché lì era stato curato un mio parente e me ne aveva parlato benissimo. Sapevo della gravità del male, ero consapevole che avrei potuto non farcela, ma ho sempre affrontato tutto con la forza di un papà che non poteva lasciare suo figlio in tenera età. Ero talmente determinato che gli psicologi di Casa Ail a Bologna, dove soggiornavano tutti i pazienti in attesa di sottoporsi ad interventi delicatissimi, mi facevano parlare con i malati per tirarli su di morale. Ricordo in particolare un mio coetaneo, affetto da leucemia: piangeva sempre, era disperato. Gli dissi che se avessi saputo che il pianto avrebbe potuto guarirci, lo avrei fatto anche io, ma siccome piangere e deprimersi non serviva a niente se non a peggiorare la situazione, era doveroso affrontare il tempo che ci sarebbe rimasto da vivere in modo positivo, per noi e per i nostri cari, altrimenti sarebbe stato meglio morire subito. E’ con questo spirito che ho affrontato tutto quello che c’era da affrontare, affidandomi al genio del professor Ravaioli ma soprattutto a Dio. Prima di entrare in sala operatoria per il penultimo degli interventi mi sono raccolto in preghiera e gli ho detto ‘fai di me ciò che vuoi, tu sai bene ciò che voglio’…”.
Emanuele non ha avuto alcun dubbio nemmeno quando, dopo il sesto intervento, in seguito alla ricomparsa delle metastasi al fegato, gli sono state prospettate le uniche tre strade rimaste.

“Mi è stato detto che avrei potuto tirare avanti ancora per poco con le chemio – prosegue – In alternativa avrei dovuto attendere un donatore di fegato compatibile per tentare un rischioso trapianto su metastasi oppure fare quello che poi abbiamo fatto. Non ho esitato nemmeno quando mi è stato risposto che sarei stato il primo al mondo e che nemmeno loro, i medici, sapevano quante possibilità di sopravvivenza avrei avuto. Ho sentito dentro di me una voce che mi spingeva a giocare quella carta come l’unica su cui puntare. Mi son detto: ‘o muoio adesso o campo per mio figlio, tutto il resto non ha senso’. Al primo dei due ultimi interventi, mi sono presentato con un sorriso enorme. L’équipe era tesissima, li ho sciolti chiedendo di mettere della musica pop. Un’infermiera mi disse ‘non so se sei più pazzo tu o i chirurghi che ti devono operare’. E’ andato tutto bene. Dopo l’impianto del fegato al posto della milza, mia sorella Grazia andò dal professor Ravaioli e gli disse ‘conosco mio fratello, anche lui era preoccupato ma sorrideva solo per voi, per farvi lavorare con animo più sereno, era consapevole del peso che sentivate’. Si è commosso. A Matteo devo tutto. Sarò eternamente riconoscente a lui, al professor Cescon, agli infermieri e agli operatori sociosanitari che hanno sopportato con infinita pazienza anche i miei momenti no, ai tantissimi che hanno pregato per me ogni giorno, alla mia famiglia che mi ha sostenuto in ogni istante, mia mamma Rosa e mia sorella Grazia non mi hanno mollato un attimo. Non è stato semplice – conclude Emanuele – ho affrontato una guerra, soprattutto dopo l’ultima operazione, quando sono stato due mesi e mezzo in terapia intensiva, sopportando una degenza dolorosissima. Ma bisogna crederci. Crederci sempre. Avere fede e la fortuna di incontrare sul proprio cammino le persone giuste. Adesso sto bene, ho bisogno ancora di tempo per rimettermi completamente in sesto ma faccio una vita normale e spero di poter tornare presto anche a lavorare. Ma soprattutto sono vivo. E non era affatto scontato”.