Ricevo e pubblico*
Salve Danilo, Le scrivo nella speranza che Lei riesca a dare una voce a questa storia che credo meriti di essere raccontata per smettere di girarci dall’altra parte, per smettere di elogiare qualcosa che non esiste. Tutto inizia il 12 marzo, quando io e le mie sorelle decidiamo di portare mio padre al pronto soccorso del “Santa Maria delle Grazie”.
Mio padre è stato operato quattro anni fa di idrocefalo triventricolare, ovvero un intervento che consiste nell’impiantare una valvola con un tubicino che drena il liquor in eccesso dalla testa fino a farlo espellere e che è servito per risolvere alcuni problemi motori che la presenza di questo liquido di troppo aveva causato.
Più volte, in questo ultimo anno, abbiamo avuto bisogno che questa valvola, impiantata nel reparto di neurochirurgia del dottor De Falco (stimato da tutti ma che ritengo essere minimamente meritevole di lode) venisse regolata e così anche stavolta.
Quando abbiamo deciso di portare mio padre in pronto soccorso, la situazione riguardo il Covid era già allarmante: ma, se abbiamo scelto ugualmente di recarci in ospedale, è perché la sera prima mio padre, già in equilibrio precario da giorni, è caduto battendo la testa contro uno spigolo in casa.
In ospedale i medici quasi non volevano trattenerlo seppure mio padre camminasse barcollando.
Tuttavia in seguito ad un nostro sollecito ed essendo la situazione identica a quella verificatasi meno di due mesi prima (e poi risolta con un ricovero nel reparto di neurochirurgia) mio padre è stato ricoverato in ospedale.
Notoriamente chi si reca in ospedale ha un problema e spera così di stare meglio: eppure adesso mi maledico per aver deciso, credendo di fare la cosa giusta, di portare mio padre in quell’ospedale, dove, stando all’esperienza personale che sto per raccontare, ho capito che c’è chi non è assolutamente in grado o, ancora peggio, non è disposto a curare come necessario un paziente come mio padre.
Abbiamo potuto vedere mio padre molto poco, a causa del Covid, ma quelle poche volte che abbiamo potuto vederlo non ci sembrava stare meglio: dopo la modifica della pressione della valvola, mio padre non riusciva ad alzarsi in piedi, era cateterizzato e, contrariamente a quanto successo le volte precedenti, i dottori mostravano poca o nessuna premura nel favorire una rapida ripresa di mio padre e nonostante ciò premevano perché tornasse a casa, fino a quando mio padre ha mostrato sintomi quali febbre alta e difficoltà respiratorie.
Sottoposto al tampone, è risultato – giorni dopo – negativo.
Pareva si trattasse di una polmonite che l’ospedale “curava”, mentre mio padre continuava a stare a letto sedato come un cavallo, cateterizzato, muto e denutrito.
A questo punto mi sento di specificare che mio padre ha un pregresso problema di natura psichiatrica che però al momento è latente rispetto alla questione neurochirurgica, come constatato da esami quali risonanze e tac e da documenti prodotti da medici specialisti quali neurologo e psichiatra, che da anni lo hanno in cura e che convengono col dire che il problema sia di natura differente dal problema psichiatrico.
Pare tuttavia che nel reparto del dottor De Falco per un paziente come mio padre, a prescindere dal problema esistente, sia più semplice riversare la questione sulla patologia psichiatrica, seppure del tutto marginale: per dirla in soldoni, ho avuto la netta sensazione che, se un paziente con problemi psichiatrici avesse, ad esempio, un tumore, in quanto paziente psichiatrico sarebbe chiamata in causa la psichiatria e non l’oncologia.
Al reparto di neurochirurgia, ho avuto personalmente discussioni accese con i medici (e qui, ahimé, mi pento di non aver chiamato le forze dell’ordine per tutelarmi e difendermi adeguatamente).
Durante una di queste discussioni il cui oggetto era la salute di mio padre, che speravamo di portare a casa quantomeno sulle sue gambe, il dottor De Falco con un collega ed alcuni infermieri affermavano che mio padre era in grado di stare in piedi autonomamente, quando solo qualche giorno prima ci era stato detto, al contrario, che bisognava ricorrere all’aiuto di uno specialista per aiutare papà a stare in piedi dopo tanti giorni trascorsi a letto.
Mio padre non potevamo vederlo, non ci era concesso, così non ci restava che credere al dottor De Falco e alla sua equipe.
Il giorno 6 aprile mio padre è stato trasferito al pronto soccorso di psichiatria dove ci è stato concesso di vederlo, visibilmente provato, ancora allettato, cateterizzato, con difficoltà nella deglutizione ma cosciente e in grado di parlare con noi, presente e collaborativo ma comunque tutt’altro che il paziente autonomo che ci avevano descritto al reparto di neurochirurgia: così mio padre si trovava, dopo più di venti giorni in neurochirurgia, in un reparto dove i medici non sapevano come aiutarlo e gli infermieri, per farlo stare in piedi, dovevano essere ben tre insieme a sollevarlo.
Abbiamo potuto vedere mio padre il giorno 6 e il giorno 7: mio padre mi ha riconosciuto, mi ha parlato, era tranquillo, gli ho tagliato le unghie lunghissime, abbiamo mangiato, lavato la faccia, le mani, i denti.
Era allettato, provato, cateterizzato, dimagritissimo ma era presente.
Il giorno 8, mio padre, in seguito ad un test covid rapido con esito negativo, è stato trasferito al Camaldoli hospital.
Anche qui non è stato riconosciuto come paziente psichiatrico (tutti concordano su questo punto, meno il dottor De Falco) e dopo due giorni è stato spostato all’interno della stessa struttura ma presso la riabilitazione che tuttavia non è mai cominciata poiché mio padre è stato sedato, non sappiamo dove, quando né perché, poiché non lo vediamo dal 7 aprile.
Alle 23 di ieri, domenica 12 aprile, la struttura Camaldoli hospital ci comunica che mio padre è stato trasferito d’urgenza con difficoltà respiratorie, saturazione del sangue bassa e febbre alta all’ospedale Cardarelli di Napoli.
Mio padre è in terapia intensiva, grave, in condizioni preoccupanti nel padiglione Covid.
Non sa che siamo in pena per lui da giorni, settimane: l’ultima volta che l’ho visto piangeva perché non voleva che andassi via.
Avremmo voluto portarlo a casa ma allettato e cateterizzato, da sole, non avremmo potuto.
Abbiamo chiesto che fosse rimesso in piedi per poterlo curare al meglio a casa con noi ma non hanno saputo e non hanno voluto.
Abbiamo creduto di fare il meglio per lui, di farlo stare meglio, di aiutarlo portandolo da chi dovrebbe lavorare per aiutare gli altri ed abbiamo sbagliato: hanno dimenticato che mio padre è una persona, un uomo di 61 anni con tre figlie e anni avanti ancora da vivere.
Adesso abbiamo perso la salute anche noi, abbiamo perso il sonno e la fiducia… ho paura che il cellulare squilli e che mi dicano che mio padre ce lo hanno ucciso con la negligenza e il cinismo.
*Roberta Gambardella