a cura di Carlo Pareto (responsabile relazioni esterne Inps Pozzuoli)
I familiari del lavoratore hanno diritto, al momento della morte di questo e in presenza di determinati requisiti, ad un trattamento economico.
Anche i figli riconosciuti “inabili al lavoro” hanno titolo alla pensione di reversibilità e agli assegni familiari, senza limiti di età, purché al momento del decesso del genitore siano a carico di questo.
È importante chiarire cosa la legge intende per “inabile” e per “vivenza a carico”.
L’inabilità è una nozione diversa dall’invalidità civile: pertanto, coloro che hanno già un riconoscimento di invalidità, anche se del 100% o del “100% con necessità di assistenza continua”, non hanno diritto automaticamente all’assegno ai superstiti, così come chi ha il 75% non ne è a priori escluso, ma devono essere riconosciuti “inabili al lavoro” dall’ente erogatore della prestazione (l’Inps per quanto riguarda i dipendenti privati, il Ministero del Tesoro in generale per i pubblici: ogni comparto ha poi il proprio ente di riferimento).
Il concetto di inabilità viene citato dalla legge numero 222 del 12 giugno 1984 (articolo 2): “si considera inabile colui il quale, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, si trovi nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa”.
Già precedentemente, tale definizione era stata introdotta addirittura con il Dpr numero 818 del 1957.
Per quanto riguarda invece il significato della vivenza a carico per i figli inabili, la circolare Inps numero 198 del 29/11/2000 stabilisce che all’atto della dipartita, il figlio inabile non risulti titolare di un reddito annuo pari a quello stabilito per l’erogazione della indennità per gli invalidi civili; se poi il figlio inabile è riconosciuto nella impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o che, non essendo in grado di compiere in maniera autonoma gli atti quotidiani della vita, necessiti di una assistenza continua, quel limite viene aumentato dell’importo dell’indennità di accompagnamento (per il 2013 è di 499,27 euro mensili; la soglia reddituale in questo caso è di 22.118,54 euro).
I redditi da considerare sono i soli assoggettabili all’Irpef (non vanno quindi conteggiate le provvidenze economiche di invalidità civile).
Tali criteri per l’individuazione dei proventi che rilevano, sono applicati per i decessi intervenuti anteriormente alla data del 31 ottobre 2000, data della Delibera del Consiglio di Amministrazione dell’Inps numero 478, che ha appunto configurato i nuovi parametri (prima di allora venivano seguite le medesime modalità adottate per l’individuazione del tetto di reddito in materia di assegni familiari, e pertanto si considerava il trattamento minimo di pensione aumentato del 30%).
Sia per stabilire l’inabilità al lavoro che per la vivenza a carico del figlio, l’ente erogatore prende come riferimento il momento del decesso del genitore.
Però se una persona viene riconosciuta titolare del diritto alla pensione di reversibilità perché in quel momento ricorrono i requisiti necessari, questo stesso titolo viene meno se, successivamente, uno di questi viene a modificarsi.
Se, dunque, una persona giudicata “inabile al lavoro” viene poi assunta ed espleta una qualche attività lavorativa, anche part-time, e conseguentemente risulta produttore di reddito da lavoro, decade dal diritto al trattamento di reversibilità (pensione al superstite).
Attenzione: la perdita del titolo alla prestazione di reversibilità è definitiva, cioè viene esclusa la possibilità di ripristino anche nell’ipotesi in cui intervengano successivamente le dimissioni o il licenziamento (circolare Inps numero 289 del 24/12/91).
La circolare dell’Istituto di previdenza numero 137 del 10/7/2001 ha però prefigurato una particolare eccezione, specificando che le persone che svolgono attività lavorativa con finalità terapeutiche presso cooperative sociali (cooperative di tipo B, legge numero 381/91) hanno comunque diritto alla pensione di reversibilità.
Per quanto attiene la decorrenza e le quote, l’assegno ai superstiti parte dal primo giorno del mese successivo a quello della morte del genitore e compete in una quota percentuale della pensione già liquidata o che sarebbe spettata allo stesso.
Per ottenerla, occorre presentare domanda all’Ente assicuratore, se il lavoratore era iscritto a questo istituto, o al proprio ente di riferimento.
Per le pensioni decorrenti dal 1 settembre 1995 (legge numero 335, 8/8/95, articolo 1, comma 41; Circolare Inps numero 234, 25/8/95): se i superstiti aventi titolo sono il coniuge e un figlio, questi percepiranno l’80%; se è il coniuge e due figli: il 100%; se i superstiti sono solo i figli: per un figlio si percepirà il 70%, per due figli l’80%, per tre o più figli il 100%.
In sintesi: nel caso di figlio inabile, a questi è concedibile il trattamento di reversibilità soltanto se: il disabile viene valutato “inabile al lavoro” dal medico dell’Inps; è a carico del genitore all’atto del suo decesso e non ha un reddito personale superiore a quello indicato per l’erogazione della pensione di inabilità (o, se titolare di indennità di accompagnamento di una situazione reddituale pari a quella suddetta incrementata dell’importo dell’indennità medesima).